mercoledì 22 aprile 2009

IMPRESSIONI DI VIAGGIO

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A volte accade che la Storia si personifichi davanti ai nostri occhi prendendo la forma di un oggetto, una testimonianza, una persona vivente. La Storia, per il progetto “Auschwitz 2008”, ha assunto le sembianze di un campo di concentramento: metri e metri di spazio marchiati dal segno indelebile della guerra, della sofferenza e del progetto irrazionale di un folle.
Questa indimenticabile esperienza è iniziata diversi mesi fa, ma ha trovato sua piena realizzazione la fredda mattina del 6 Novembre 2008 nell’incontro con Auschwitz.
Abbiamo visto la celebre scritta “ARBEIT MACHT FREI” (il lavoro rende liberi). Mi ha colpito subito la sua macabra ironia e ho sentito in bocca il gusto amaro delle speranze deluse. I deportati infatti credevano che se avessero lavorato duramente sarebbero stati ricompensati con la libertà; i carnefici invece sapevano che la libertà consisteva nella maggior parte dei casi nella morte. A illudere i prigionieri c’era, oltretutto, un convoglio della Croce Rossa.
Nelle casette di mattoni rossi, tutte uguali e disposte simmetricamente su una stradicciola, i cosiddetti block, trova sede un piccolo museo al cui interno sono custoditi gli oggetti rubati ai deportati: cumuli di occhiali, scarpe, utensili da cucina, tutine da neonato e tutto ciò che una persona avrebbe preso con sé nel caso in cui fosse dovuta andare via dalla propria casa per un po’ di tempo. Si aspettavano di andare verso la vita, evidentemente, e non hanno prestato ascolto alle tremende voci che circolavano.
Alcuni corridoi sono tappezzati dalle foto in bianco e nero che mostrano le persone appena giunte al campo nei loro pigiami a righe, con gli occhi spalancati sull’obbiettivo. Sono tutti morti prima della Liberazione. Non sapevano che tutto, dai loro capelli ai loro corpi sarebbero stati sfruttati da arditi volontari (i nazisti presenti erano tutti volontari); perfino dai denti d’oro dei morti sono state ricavate sei tonnellate, mentre i capelli erano convertiti in tessuti. E l’orrore non finisce qui.
Siamo passati davanti al decimo block dove i medici del campo compivano i loro esperimenti, che spesso avevano come fine l’individuazione dei metodi più efficaci per le sterilizzazioni di massa: fra i medici che qui hanno operato vi è stato anche Josef Mengele, ribattezzato il “Dottor Morte” o “L’Angelo della Morte”, tristemente famoso per gli esperimenti sugli esseri umani. Mengele era celebre per la crudeltà con cui trattava le sue cavie: a volte i bambini sopravvivevano ai test e lui li finiva con un’iniezione di fenolo al cuore, per vedere gli organi interni. Lui invece morì di ictus mentre nuotava in piscina in Sud America.
Poco più in là si trova il Blocco 11, dove si trovava la prigione del campo. Le punizioni, esclusa la morte per fucilazione, avvenivano nel buio e squallido sotterraneo del block: lì si trovava la cella della fame, nella quale morì padre Kolbe; la cella del buio, una stanzetta senza finestre dalle dimensioni talmente ridicole che delle quaranta persone pigiate, venti morivano di soffocamento; e piccoli cubicoli di novanta centimetri di lato in cui venivano lasciati in piedi dalle quattro alle sei persone a morire di sfinimento. Alcuni deportati morivano sul muro della fucilazione: una parte di essi aveva, sulla carta, un procedimento che definire processo è un insulto alla loro memoria, dal momento che il giudice, in due o tre ore, condannava e mandava a morte circa duecento persone. I rimanenti morivano senza l’ordinanza.
Infine, superato il patibolo dove il 16 aprile 1947 venne impiccato Rudolph Hoess, comandante del campo, spicca verso il cielo grigio una ciminiera e la sagoma del crematorio. Qui infatti, ad Auschwitz 1, sono ancora conservati la camera a gas e due dei tre forni crematori utilizzati prima della costruzione di Birkenau.

Birkenau è trenta volte più grande di Auschwitz: è l’enormità di una sconvolgente follia, il pezzo di mondo dove l’odore dei corpi bruciati errava per giorni.
Nessuna frase ironica, nessun camion della Croce Rossa, nessun asciugamano qui ha illuso i prigionieri: è un campo sterminato, immenso, inquietante.
La sofferenza passata ma non ancora trascorsa scende sotto forma di assoluto ed eloquente silenzio su questo teatro in cui la vita ha trovato la sua negazione più dolorosa. Gli attori sono stati magistrali, il regista straordinario, ma non ce la sentiamo di battere le mani: non è stata una farsa.
Abbiamo riconosciuto l’ingresso ammantato di cupa celebrità, i binari che vi corrono sotto, giù, fino in fondo, fin dove non si vede la fine, fino a trovarsi in mezzo ai forni crematori. Prima di percorrerli abbiamo ascoltato la canzone “Auschwitz” di Guccini: è stato un momento molto commovente. Questo luogo riesce ancora a far piangere.
Siamo entrati camminando per un pezzo sopra le rotaie, poi sulla stradicciola, fino alla fine dei binari; dopodiché abbiamo messo un sassolino portato da casa sull’iscrizione commemorativa italiana in memoria di un’antica tradizione ebraica e di non troppo antichi crimini. Le lapidi erano scritte in tutte le lingue passate per Auschwitz – Birkenau. Il campo da qui sembra ancora più grande.
Abbiamo avuto un’ora per visitare il lager in gruppo o da soli, se preferivamo.
I forni crematori, che in passato furono tanto efficienti da bruciare cinque mila corpi in ventiquattrore, sono stati fatti saltare in aria dai nazisti poco prima dell’arrivo dei Russi e ora giacciono scomposti in un cumulo di rovine, ma è ancora possibile vedere l’ingresso di quell’inferno.
Infine, torniamo indietro. La chiusura di questa giornata indimenticabile è alle quattro, nessuno avrebbe voglia di restare qui al buio.
Gli incontri con la Storia insegnano sempre qualcosa, in modo duro, a volte, ma rimangono impressi indelebilmente nel nostro cuore, nella nostra mente, sulla nostra pelle, nella nostra coscienza.
Questo incontro è stato, almeno per me, una lezione di vita, non solo per le vicende che appaiono sul palcoscenico e si offrono al nostro sguardo, ma anche per gli interrogativi che lascia un sipario ancora alzato.

Silvia Romanò

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